“Quindi scusami se non ricordo, ma è una cosa che mi succede
lo vedi, ho dimenticato se sono verdi o azzurri
comunque ciò che conta, quello che voglio davvero dire,
è che i tuoi sono gli occhi più dolci che io abbia mai visto”
Mantenere dentro di noi il ricordo dei rapporti che abbiamo vissuto prima della quarantena. Questa sembra essere ed è e la cura, la strada che ci permette di stare bene. Ma perché? Qual è la magia che si cela dietro questa frase all’apparenza banale?
Non ci siamo dimenticati della strada che facevamo per andare al lavoro, né del viso dei nostri amici e familiari o del sorriso del negoziante sotto casa. Non ci siamo scordati dei tramonti, le attese, i desideri e i luoghi che hanno accompagnato la nostra vita fino a oggi. Ma non è di questo che stiamo parlando. La codifica e l’immagazzinamento di quei ricordi non ci rende umani: anche il cane ricorda, a distanza di mesi, dove ha sotterrato l’osso. Avere una buona memoria, tenere a mente il viso e il colore degli occhi delle persone a noi care, non è sufficiente per stare bene. Pensare che ciò che ci rende umani sia registrare passivamente eventi, archiviandoli nella nostra mente, è sbagliato.
Possiamo proporre infatti che i nostri ricordi non sono riproduzioni di immagini copiate dall’esterno, ma creazioni interne. Il ricordo della persona amata, ad esempio, è il ricordo dell’affetto che abbiamo realizzato nel rapporto reale e concreto con quella persona, per questo può vivere dentro di noi anche in sua assenza.
Ma perché questo ricordo è in grado di farci stare bene? Perché nel ricordo ci siamo noi stessi e la nostra storia. Non ricordiamo mai le persone, ma noi nel rapporto con quelle persone, i nostri desideri soddisfatti e quelli che ancora abbiamo da realizzare. I dettagli fisici, materiali, si possono offuscare, ma quello che abbiamo vissuto non può essere cancellato.
Guardiamo indietro, per poter guardare avanti.