Da pochi giorni l’Italia è zona rossa. Le misure restrittive, fino alla settimana scorsa in vigore unicamente al Nord, sono state estese in tutto il Paese. Sulla scia dello “state a casa”, spaventati e impreparati, gli italiani corrono ai ripari come possono, organizzandosi con il lavoro, con le famiglie, con la vita che, improvvisamente, cambia. Uno ad uno i negozi sotto casa, la palestra dietro l’ufficio, il bar preferito chiudono. Dalle finestre delle case, la vista al di là del vetro è faticosa: ci colpisce vedere le strade deserte, le attività commerciali chiuse, le serrande abbassate. Proviamo amarezza quando leggiamo i cartelli affissi «chiuso per ferie», perché le ferie ci richiamano le vacanze estive, ci riportano con il pensiero al Natale quando eravamo bambini, ai periodi di festa, di divertimento, di leggerezza. Di leggero, oggi, c’è ben poco. Il panico, la paranoia, l’impotenza ci colpiscono allo stomaco e lentamente un senso di vuoto ci assale. Cose semplici, come ad esempio camminare per strada, che fino a ieri era un gesto banale, scontato, spesso anche sottovalutato, oggi appare spaventoso e pericoloso. Qualche giorno fa avremmo gioito nel trovare facilmente parcheggio, eppure oggi ci sembra così sbagliato. E quelli che non reggono il peso dell’angoscia si distraggono, follemente, tra aperitivi e serate social.
«Sembra di essere in una zona di guerra», mi racconta una paziente. È triste e visibilmente scossa. Sotto i nostri occhi si concretizzano scenari di desolazione che finora abbiamo visto unicamente nei film, solitamente quelli che parlano di zombie o di un’era post-atomica. L’apocalisse, l’armageddon, la terza guerra mondiale, scene spesso associate alla morte, alla sofferenza umana, all’assenza di ogni speranza e possibilità. Immagini che poi, quando finisce il film, siamo ben contenti di lasciarci alle spalle, nella pellicola. «Meno male, era solo un film».
Ciò che ci spaventa di questa situazione, che, seppur complessa, non si avvicina poi così tanto agli scenari postapocalittici che ci vengono in mente, non riguarda solo le grandi implicazioni sanitarie, economiche e sociali che affrontiamo oggi e che ci riguarderanno nei prossimi mesi. Se il blocco delle attività commerciali costituisse unicamente un problema di natura materiale, ossia la necessità di sospendere il lavoro e ritirarsi in casa per un certo periodo di tempo, allora saremmo chiamati unicamente ad organizzarci per gestire le importanti questioni pratiche e trovare una soluzione per questo periodo di transizione: fare la spesa; mantenersi economicamente; preservare noi stessi e i nostri cari. Ma allora come ci spieghiamo la sensazione di malessere nel vedere le strade vuote e i negozi chiusi? Come mai ci angoscia così tanto lasciare il lavoro, chiuderci in casa, evitare i contatti con l’esterno? Per quale motivo ci sentiamo castrati dalla condizione di isolamento dettata dal periodo, tanto che ci sembra di impazzire?
È come se il virus ci stesse portando a confrontarci con un cambiamento in cui il prima e il dopo differiscono notevolmente. Prima ci sentivamo liberi di muoverci e di realizzare sogni e progetti. Dopo, cioè oggi, non ci sono più baci, né abbracci, niente più aperitivi, niente più luoghi di interesse né eventi, niente più vicinanza, colleganza. Sparisce il barista gentile che ci sorride la mattina e che conosce perfettamente come prendiamo il cappuccino. Spariscono i pranzi con i parenti, le cene con gli amici, sparisce la possibilità di farsi belle, uscire la sera sognando di incontrare il principe azzurro. Abbiamo paura di fare l’amore.
Allontanandoci dalla realtà concreta per cercare di cogliere la dinamica psichica e affettiva di quello che stiamo vivendo, possiamo pensare che la nostra vita è costellata da momenti di crisi e di cambiamento, diversi nell’entità e nella modalità con cui si sono manifestati, ma simili nel modo in cui li abbiamo vissuti. Eravamo contentissimi in terza elementare, giocavamo con il nostro amichetto preferito e ci divertivamo tanto. Poi, un giorno, l’amichetto ha cambiato scuola e non lo abbiamo più visto né sentito. È scomparso. Poi ci siamo fidanzati con una bellissima ragazza, o con un ragazzo che ci faceva sentire molto amati. Poi, improvvisamente, l’amore è finito e ci hanno lasciato. Sono scomparsi. Ci siamo dedicati anima e corpo nello studiare qualcosa che ci appassionava con il desiderio di farne un lavoro soddisfacente ma durante l’università è successo qualcosa, quell’antica passione non ci ha più fatto battere il cuore come prima. È scomparsa.
I cambiamenti ci fanno confrontare con la sparizione, su un piano fisico e concreto, della realtà materiale con cui fino a quel momento ci siamo rapportati. Ci spingono a pensare che l’altro che se ne è andato ci ha portato via tutto. «Non posso più affezionarmi a nessun altro amico: l’amicizia non esiste»; «non posso più lasciarmi andare nei rapporti: l’amore non esiste»; «nel lavoro non serve la passione: sognare è una perdita di tempo».
Allo stesso modo oggi la vita contingentata, l’assenza di attività sociali, le serrande chiuse, le strade deserte sono assenza di vita, morte. Ci sembra di aver perso la vita, non quella biologica indicata dal battito cardiaco e la respirazione, ma quella affettiva che ci fa “sentire qualcosa dentro”, ci fa essere noi stessi.
Abbiamo una lista chilometrica di cose che abbiamo perso nelle pieghe della nostra vita, un gigantesco “ufficio oggetti smarriti” che attesta il rendiconto storico delle nostre separazioni, vissute come perdita, abbandono, fallimento. Amici che si sono rivelati essere un esercito di fedifraghi e traditori e che ci hanno pugnalato alle spalle. Esperienze fatte e di cui un tempo eravamo convinti, divenute rimorsi. Percorsi che poi cambiano e si fanno vicoli ciechi.
Eppure, questa non è la verità. L’amichetto delle elementari non voleva abbandonarci: è solo andato via. Così come la ragazza o il ragazzo non ci hanno tradito: sono solo andati via; e la passione che tanto ci animava non ci ha fatto perdere tempo: è solo andata via. Scopriamo allora un’altra realtà, forse ancora più angosciante di quella che credevamo vera. Quando ci separiamo da qualcosa che è stato importante, non è tanto l’altro che ci abbandona: siamo noi che rispondiamo abbandonando. Abbiamo così paura del malessere e del vuoto legato all’assenza che ci difendiamo cancellando gli affetti che fino a poco tempo prima eravamo stati in grado di provare. Come la deflagrazione di una bomba potentissima, come l’emergere improvviso di un buco nero che tutto divora e annienta, o un raggio laser paralizzante che ci congela, esiste in noi una forza inconscia che cancella l’amore, l’interesse, il coinvolgimento che sentiamo e li rende il contrario di ciò che sono: rabbia, odio, indifferenza.
La pulsione di annullamento fa di ciò che è ciò che non è, fa sparire l’altro e con lui le proprie possibilità di rapporto realizzando l’annullamento di sé stessi e del proprio mondo affettivo. Annulliamo una nostra parte capace di vivere gli affetti, perché di fronte all’assenza fisica rispondiamo con l’assenza affettiva. Ed è come riscrivere costantemente la propria storia, una storia in cui via via tutti i ricordi belli e positivi si sgretolano, divengono bugie, rimpianti, distorsioni perverse della verità. La difesa come anaffettività, come distruzione di tutte le possibilità umane che abbiamo realizzato nella storia: siamo isolati, emarginati, non sentiamo più la vita.
La sensazione di camminare per strada senza altri esseri viventi attorno ci riporta a tutte le volte in cui, ritrovandoci in una situazione di cambiamento, la paura di vivere una realtà peggiorativa ci ha portato a coartarci e a far sparire le nostre possibilità di rapporto umano. I locali chiusi, i mancati aperitivi, le opportunità perdute ci rimandano agli infiniti, ostinati, autosabotaggi contro noi stessi e contro una parte creativa e affettiva che in tanti momenti abbiamo scotomizzato. Una ad una le persone svaniscono, la vita si ferma, la realtà ci conferma che abbiamo cancellato le nostre possibilità di vivere il cambiamento in modo trasformativo piuttosto che regressivo. Allora è necessario riaprire gli occhi, non cancellare, risalire dal pozzo profondissimo in cui eravamo caduti, dove l’aria è rarefatta e regna il buio; è necessario recuperare una luce che mandi via l’angoscia, gli zombie, la sensazione di vuoto.
Le strade deserte non possono essere la conferma del nostro onnipotente istinto di morte, del fatto che ci siamo separati e da un giorno all’altro sentiamo di aver perso vita, amore, opportunità di crescere e stare bene. Se ci pensiamo, le strade sono vuote proprio per la ragione opposta: migliaia di persone in questo momento stanno lottando per il benessere di sé stessi e dei loro cari, per il vicino di casa, per il signore anziano incontrato ogni mattina al parco, per quel vecchio amico d’infanzia, che chissà che fine ha fatto ma che comunque nessuno vuole che si ammali.
Oggi siamo chiamati a metterci in una situazione di sicurezza, di protezione giusta e necessaria per noi e per gli altri e ci può spaventare, temendo che saremo in eterno reclusi in casa, impotenti e bloccati, ma in verità non lo siamo affatto. Perché lottare non è essere fermi, perché in tanti stanno facendo il possibile per uscire da questa crisi: il personale sanitario e non degli ospedali, i cittadini che hanno accettato di rimanere in casa, i lavoratori che coraggiosamente hanno scelto di chiudere le proprie attività commerciali, quelli che altrettanto coraggiosamente stanno continuando a garantire i servizi necessari evitando che un’intera nazione collassi. Gli stessi malati combattono. Ed è proprio questa parte affettiva di uomini e donne che si interessano ad altri uomini e ad altre donne, di esseri umani che si prendono cura di altri esseri umani, che oggi siamo chiamati a riconoscere e ad esprimere, ognuno a modo suo, affinché insieme, lontani ma vicini, in rapporto l’uno con l’altro, possiamo mandar via la minaccia del virus.
Una parte affettiva con la quale siamo nati e che non scompare nonostante le strade deserte, i parcheggi vuoti, i supermercati saccheggiati, le serrande abbassate, il limite ad uscire, la distanza dai propri cari, la quarantena. Dietro quelle serrande chiuse, seppur non si vedano, continua a rimanere il ricordo del barista, della commessa, del collega con cui amavamo prendere il caffè. Al di là di quelle strade isolate, rimane il ricordo delle tante volte in cui le abbiamo percorse, soli o in compagnia delle persone che amiamo, carichi di speranze o solamente di buste per la spesa che poi avremmo condiviso con parenti, amici ed amanti, ridendo, scherzando, facendo l’amore. I parcheggi torneranno a riempirsi e noi torneremo ad imprecare.
La sparizione della realtà materiale non è l’isolamento dell’uomo dal mondo. Se l’uomo non sprofonda nell’oscurità degli abissi, se non cancella il ricordo dei rapporti realizzati, allora salva sé stesso e la propria storia. Se ricorda il contenuto umano di quelle strade e di quei negozi, se ricorda la collaborazione, la cooperazione, l’unione, anche se a distanza, allora rimane umano.
Perchè il ricordo non è nostalgia di un passato idealizzato ma possibilità di continuare ad esprimere la vita e le realtà affettive che abbiamo vissuto, oggi in un modo e domani, che potremo uscire, in un altro.
Se riusciamo a fare questo e manteniamo gli occhi aperti, allora gli zombie spariscono e rimane la vita.
Cristiano Anderlini