La formazione dello psicologo è assai complessa. Non solo deve districarsi tra le numerose teorie che, non sperimentate, costruiscono un confuso ed intrigato sapere astratto spesso destinato ad infrangersi sullo scoglio del rapporto reale con la clinica.
Inoltre far propria una teoria, senza aver costruito e sviluppato una propria maturazione di rapporto che renda possibile il sentire ed il comprendere, ci costringe ad appropriarci di un sapere dove, continuamente, siamo condannati ad esprimere il pensiero di un altro e non il nostro.
Per questo siamo distanti, lontani, difesi. In quel momento noi non siamo più in una relazione determinata dall’intuito e dalla recettività, ma alle prese con un pre-saputo in cui forzosamente cerchiamo di adattare una realtà umana di dolore e di pena che meriterebbe invece una partecipazione ed un interesse umano completamente diverso.
Quale teoria allora scegliere tra le tante a disposizione? Quale privilegiare?
Ma, in verità, è proprio necessario scegliere, in una forzosa acquisizione e contrapposizione tra pensieri in conflitto tra loro, in una corsa, affannosa e perenne, al prevalere gli uni sugli altri? In un estenuante e sterile braccio di ferro che non parla e non risponde?
Non è la teoria che crea il vero, è la realtà e la verità umana che si esprime in un rapporto che ha il potere di modellare e fondare una teoria reale e vera.
Spesso la risposta è subito al di là di un’apparenza che, consolidata e certa, ci appiattisce in una falsa verità che confonde e fa perdere.
Nel cercare una strada, che ci possa guidare nell’impervio sforzo alla costruzione di un sapere vero e certo, tendente all’essere e non ad un convenzionale fare, troviamo che una solida base d’appoggio risieda nella ricerca dell’origine, della sorgente di un sapere da cui tutto è sgorgato che, nel tempo, è cresciuto diversificandosi in mille rivoli, che spesso si è impantanato, avendo dimenticato ed abbandonato quel legame invisibile, quella guida che lo potrebbe condurre al centro dell’uomo.
Parlando dunque di formazione e di psicologia, l’origine che contiene e conduce al vero, l’inizio che dipanato ci porta all’essere, il primum movens, nascosto sotto un’apparenza falsamente vera, definita tale dall’abitudine, lo possiamo cercare e trovare nel nome stesso della psicologia.
Dalla Treccani leggiamo infatti “Psiche: Termine la cui etimologia si riconduce all’idea di “soffio”, cioè del respiro vitale; presso i Greci designava l’anima in quanto originariamente identificata con quel respiro, in questo senso la storia del concetto di psiche viene a coincidere con quella del concetto di anima. Nella psicologia moderna, la psiche è intesa come il complesso delle funzioni e dei processi che danno all’individuo esperienza di sé e del mondo e ne informano il comportamento”.[1]
Abbiamo dunque l’idea iniziale di una realtà vera, concreta e vitale, un respiro che rende vivo l’uomo.
Poi, in un salto verso l’infinito, il passaggio ad un’idea, ad un concetto astratto e spirituale di anima.
E per finire una moderna visione funzionale, sintomatica e comportamentale dell’essere umano.
Tragicamente potremmo definire tutto ciò come un lento ed inesorabile procedere dell’umanità verso il DSM-5.
Non siamo d’accordo! È solo vuota apparenza, cancellazione dell’umano, disconoscimento della parte più preziosa: l’affettività che, unica attraverso i rapporti, permette la nascita, la crescita, la trasformazione.
Cerchiamo, dunque, di disperdere la confusiva nebbia, di far luce per trovare quella verità che, seppur nascosta, da sempre è stata ed è presente.
Il termine psiche, nella sua accezione più antica di respiro, prima, ed in seguito di anima e di attività psichica, in realtà è la traduzione greca della parola semitica nefesh, coniata dagli ispirati autori biblici.
Nelle sacre scritture, fin dall’origine, tale vocabolo non esprimeva assolutamente il senso che, nel III secolo A.C. in pieno Ellenismo, assunse di entità spirituale ed astratta, immateriale, immortale, separata e contrapposta ad un corpo ed alle sue funzioni materiali, tangibili, mortali.
Infatti, nefesh è la determinatezza della realtà umana. È la vita che si esprime nel reale, è il respiro che rende il corpo vivo e, senza il quale, quel corpo sarebbe solo materia, maschera morta, non umana.
È la statua che, fredda ed immobile, prende vita diventando umanità calda e mobile, vera e terrena.
Nefesh è il respiro che vivifica il corpo.
È la vita che si realizza e si esprime nelle diverse funzioni fisiche, concrete, corporee.
È sangue, è lacrime, è sudore, è cuore che infaticabile corre a comporre l’esistenza, è bocca che soddisfa i bisogni primari di bere e mangiare, è sperma che feconda, è vagina recettiva ed accogliente.
È l’umanità che si realizza e concretizza nelle infinite peculiarità dell’essere.
Nel corpo vengono espressi, non solo i bisogni che ne permettono la sopravvivenza e la cui mancanza determinerebbe la morte, ma anche gli stati affettivi ad essi sottesi: il desiderio e la possibilità all’appagamento di essi, il prendere, il domandare, il chiedere, la bramosia e la rabbia, l’invidia e l’odio, l’indifferenza.
Nefesh, dunque, come funzionalità del corpo,
nefesh come contenuto di sentimenti che attraverso quel corpo si manifestano,
nefesh come parola che esprime l’identità di chi la pronuncia “io sono la mia nefesh”,
nefesh come accettazione dell’identità dell’altro con cui ci si relaziona “tu sei la tua nefesh”,
nefesh è noi, è loro, è essi,
nefesh è la realtà umana che si realizza nel rapporto umano,
nefesh è la vita umana nelle sue complessità e totalità di integrazione e rapporto.
Non c’è mai nelle scritture una volta in cui il termine nefesh faccia riferimento a quell’entità spirituale ed immateriale di anima che nel sacramento del battesimo per intervento divino si infonde nel corpo rendendolo umano.
Mai che venga affermato che l’essere umano possegga un’anima: l’uomo vivo non ha una nefesh, l’uomo è nefesh.
Mai che venga affermato che la nefesh, che abita l’uomo, lo distingue e lo caratterizzi dall’animale che inferiore invece non la possederebbe.
Per le scritture anche l’animale vivo e mobile è ed esprime la propria nefesh.
Dunque la distinzione dell’umanità dalla animalità risiede unicamente nella circostanza che l’uomo, nel mistero della creazione, a differenza è stato plasmato ad immagine “divina”.
Questa centralità di un essere umano, reale nella concretezza di un soffio vitale, esprime, della singola persona, la totalità dell’esistenza nelle sue componenti fisiche, biologiche, emotive e, con esse, la possibilità di realizzare la capacità di rapporto e di incontro con gli altri esseri umani.
Ma questo fulcro di un’umanità viva e concreta, che guida ed innalza il mondo insieme all’essere, nella tensione alla realizzazione di una esistenza umana sempre più umana, di una Storia sempre più Storia da poter edificare insieme ad altri uomini, improvvisamente viene rovesciato e, da interno all’essere, viene posto fuori nelle sfere celesti e divine. Da allora, purtroppo, l’uomo non ha più potuto appoggiarsi su se stesso, alla ricerca dell’evoluzione per poter essere sempre più giusto, sano, in equilibrio nell’essere con gli esseri umani, ma, monco della sua umanità creativa, si è condannato alle stampelle del divino, nell’illusione, senza speranza, di poter sanare così la sua castrata zoppia.
Quell’empireo immutabile, eterno, a cui appoggiarsi nel fonte battesimale, campana a morte per un’umanità perduta, forzosamente viene fatto rientrare nell’essere, diventando corazza spirituale astratta che riesce a contenere un uomo genuflesso e prostrato alla benevolenza del dio, in remissione della colpa di essersi scordato di essere un essere umano.
Potremmo pensare che questo radicale capovolgimento di prospettiva sia stato perpetrato ed orchestrato da un potere religioso, gestito da zelanti ed ortodossi sacerdoti, per la custodia e la difesa della fede e del verbo divino.
Invece, sorprendentemente e paradossalmente, più realisti del re, si sono dimostrati i sapienti pensatori, i padri fondatori del sapere e della cultura occidentale, i filosofi dell’età ellenistica che hanno sostituito al senso terreno di nefesh, traducendolo in greco con psyché, il concetto dell’esistenza di un’anima immateriale ed immortale che, sopravvive eterna dopo la morte, separandosi dal corpo.
Da allora, il termine psyché si appropria indissolubilmente di questo nuovo contenuto spirituale che, derivato da una speculazione intellettuale, con la presunzione di poter descrivere e spiegare l’uomo con l’uso di una ragione pressoché divina, racconta di un essere nato e perduto nel peccato e nel male primigenio ed eterno che, da allora, caratterizzerà, fino a noi, il genere umano.
Sembra che postulare l’esistenza di un uomo che cammina nel mondo e nella Storia, poggiandosi sulle proprie gambe, libero dalla dipendenza di un’onnipotenza divina o da una disumana sapienza onnisciente che lo rende il più evoluto e potente degli esseri, sia terribilmente rovinoso e pericoloso.
Meglio pensare di essere piccoli nani sulle spalle di giganti del pensiero e della fede, meglio pensare di poter indirizzare l’odio e la rabbia per una piccolezza eterna contro i nemici del pensiero e della fede.
Così è sempre stato e si vuole che sempre sia.
Ma se spogliamo il termine psyché dei significati tardo ellenistici, filosofici e spirituali, se recuperiamo le peculiarità umane presenti nel nome stesso, potremo finalmente disvelare il vero e l’unicità contenuti nel termine psicologia.
Psyché, come abbiamo detto, nel suo significato originario, esprime la vita come respiro, soffio vitale che si infonde e vivifica l’uomo.
Dobbiamo allora chiederci come sia possibile il passaggio da una realtà vitale intrauterina, buia e senza respiro, immerso, come è il feto, nel liquido amniotico, ad una realtà, viva extrauterina, nella quale indipendente per la cesura dell’omeostasi precedente il bambino sia in grado di vivere autosufficientemente per un tempo determinato.
Cerchiamo di capire come possiamo arrivare a quel primo respiro, quel primo vagito che rende il neonato vivo ed individuato.
Il passaggio avviene in quei cruciali venti secondi, dopo la nascita, in cui il bambino, pur nato, non è ancora né vivo né autosufficiente. Il respiro deve ancora comparire. Si è ipotizzato per lungo tempo che, alla nascita, l’esposizione alla pressione atmosferica, agendo sulla cassa toracica, fosse in grado di stimolare la ritmica compressione ed espansione polmonare. In realtà è difficile poter ipotizzare una pressione che, agendo dall’esterno, possa stimolare una dilatazione del tessuto polmonare per introdurre l’aria che rende vivo l’essere. Sarebbe più giusto pensare ad una forza che, applicata all’esterno del corpo, in qualche modo, si opponga.
Se pensiamo alla nascita possiamo osservare che il rapporto con la luce è la situazione completamente nuova che il neonato sperimenta. La situazione precedente intrauterina, infatti, all’opposto, era caratterizzata dal buio in cui gli occhi non potevano funzionare per l’assenza della luce che potesse eccitarli. Consideriamo, inoltre, che la retina è l’unica parte del S.N.C. aperta all’esterno, per rispondere all’eccitazione di uno stimolo adeguato che può essere soltanto la luce. Tale impulso, attraverso i nervi ottici, raggiunge i centri ottici occipitali e, da qui, può espandersi a tutto l’encefalo risvegliando i centri respiratori del tronco e permettendo, così, l’attività dei muscoli respiratori che, dilatando la cassa toracica, consentono al tessuto polmonare di espandersi, inspirando per la prima volta l’aria che rende vivo quel corpo immoto. Il primo singulto, il primo vagito, il primo pianto che manifesta, imperioso, l’ingresso nella vita.
Il respiro, dunque, come risposta al primo rapporto che il nato si trova a vivere. Il rapporto con la realtà materiale non umana: la luce, il freddo, il rumore.
Quei cruciali venti secondi che delimitano il passaggio dal silenzio inerte alla vita che, prepotente, si esprime nel mondo, rappresentano il tempo di risposta all’impulso che, nascendo dall’incontro della luce con le cellule retiniche, arriva a stimolare e mobilizzare i centri nervosi, prima, ed i muscoli respiratori poi. Si realizza così quella prima e fondamentale separazione nella quale compare un essere, più libero ed autonomo, in grado di sopravvivere da solo rispetto alla situazione simbiotica precedente.
Ma non solo.
Alla nascita il rapporto con la luce concretizza, oltre la possibilità di una vita fisica che permette l’esistenza, la creazione, altresì, dello psichico nell’essere: la prima immagine, il primo ricordo, il primo desiderio insieme alla speranza di un “altro” oggetto umano che possa soddisfare il rapporto.
Nello scontro con la luce, realtà materiale non umana indifferente, e per questo aggressiva, costringe, infatti, il neonato all’uso di un potere facile e onnipotente: quello di poter, chiudendo gli occhi, allontanare fino a far sparire questo oggetto anaffettivo che lo sconvolge, di poter fare il buio trasformando nel suo opposto la realtà vera della luce, fantasticando di ritornare alla realtà della situazione precedente intrauterina.
Il bambino che nasce, nel rapporto con la realtà materiale non umana scopre in sé l’esistenza di un istinto: l’istinto di morte nella specifica fantasticheria di annullamento e di sparizione.
Nell’annullamento della realtà extrauterina, nella tendenza di ristabilire lo stato anteriore, il bambino però ci racconta dell’esistenza di un prima, in cui immerso con tutto il corpo nell’acqua del liquido amniotico, aveva già realizzato una relazione oggettuale, il rapporto con un’acqua che non era inanimata ma invece oggetto vivo, perché contenente qualità umane come calore e calma.
Nella situazione di buio intrauterino aveva già realizzato, mediante la sensibilità biologica, la possibilità di poter percepire-recepire tali qualità, con e per lo sviluppo di un sé libidico del feto stesso, per la comparsa cioè di una vitalità che permetteva la realizzazione di un rapporto. Consideriamo, dunque, che il feto, prima ancora di nascere, ha vissuto un rapporto libidico sessuale diretto con l’ambiente esterno a lui, potendo così recepire ed aumentare le proprie realizzazioni e possibilità libidiche, dato che l’ambiente esterno corrispondeva alla sua attività di rapporto.
Concettualizziamo, dunque, che è proprio in quel primordiale, vero e concreto, rapporto che si crea il primo sé libidico dell’essere, come possibilità, attraverso la sensibilità biologica, di percepire il contenuto umano, le qualità dell’oggetto, realizzandone l’esistenza.
Per quanto rimane di questa realtà libidica, dopo il trauma del parto, essa sarà in grado di integrare e trattenere l’istinto di morte, nel suo essere annullamento del mondo e del sé stesso nato, riuscendo così a trasformare questo ritorno regressivo nella prima attività psichica dell’essere, la creazione dell’immagine come traccia mnestica della situazione precedente in cui, nell’assenza della luce, attraverso la libido, percependo le qualità dell’oggetto, realizzava l’esistenza dell’oggetto.
Alla nascita, dunque, proprio per l’intervento dell’istinto di morte e della libido intrauterina, con la creazione dell’immagine, il bambino nato ricrea quello che prima era rapporto diretto esterno a lui come realizzazione di libido e di possibilità libidica di rapporto, come speranza e desiderio di poter trovare, nella nuova situazione, altre realtà libidiche con cui realizzare quella corrispondenza affettiva che permette la crescita.
Affermiamo, dunque, che è il rapporto con la luce che rende fisicamente vivo l’essere umano così come è ed è sempre nel rapporto con la luce che possiamo recuperare il rapporto libidico della situazione precedente, facendolo diventare attività psichica come realizzazione di sé, di possibilità di rapporto, di speranza e desiderio.[2]
Cioè di vita psichica umana.
Quando poi, approfondendo, consideriamo il feto, immerso nel liquido amniotico, non possiamo non considerare che c’è stato un prima, cioè l’esistenza di un precedente rapporto sessuale fecondante tra due esseri umani, così come, nella stessa situazione intrauterina, l’esistenza di un rapporto affettivo corrispondente che permette la crescita del feto e la nascita che lo rende vivo, ed ancora, in quel neonato, che viene alla luce piangendo, l’esistenza di una ritrovata realtà affettiva come possibilità di trovare un nuovo, in cui esaudire il desiderio di realizzazione attraverso i rapporti umani.
Nella centralità, dunque, dei rapporti affettivi possiamo, sicuri, affermare che i rapporti affettivi originano l’essere, i rapporti affettivi ci portano alla luce, i rapporti affettivi permettono, nella crescita, l’incessante sviluppo migliorativo dell’uomo. Purtroppo, però, dolorosamente, rapporti deludenti, abbandonici, indifferenti hanno il potere di bloccare la realizzazione e la crescita affettiva ed inaridiscono e perdono l’essere umano.
Per l’importanza che attribuiamo ai rapporti affettivi, il termine psiche non può essere soltanto la parzialità umana di una teoria astratta, la parzialità di un essere appiattito nell’apparenza di un comportamento stereotipato e neppure, la parzialità di una meccanica e biologica funzionalità.
Psiche invece è totalità affettiva che nasce e si realizza solo e soltanto attraverso il rapporto umano, è affettività che desidera soddisfarsi nell’affetto dell’altro che corrisponde, è affettività, ritrovata alla nascita, come ricordo di un rapporto totalmente soddisfacente, è affettività, come capacità, nascendo, di saper amare ed essere amati, è affettività sana da realizzare nel rapporto affettivo che soddisfa.
Purtroppo però è, altresì, dolore, disperazione, l’affetto che si perde in rapporti deludenti che non rispondono, è pazzia la certezza che l’affettività non sia, che il rapporto con il liquido amniotico e con la nascita non ci sia mai stato, è malattia per un’affettività dolente, capovolta, condanna eterna a rapporti castrati, impotenti, conflittuali, parziali, perduti.
In questo psiche può finalmente diventare cura.
Infatti è attraverso il rapporto affettivo dello psicologo con il paziente, nel sapere della realtà umana profonda, nell’investimento come interesse e nell’ascolto come recettività umana, che possiamo comprendere il senso della comunicazione inconscia del paziente, si può rispondere e soddisfare le sue esigenze affettive laddove, il desiderio esaudito, porti ad un ritrovamento delle istanze libidiche, dove gli occhi chiusi si possono finalmente riaprire, permettendo che questa realtà affettiva, ricomparsa, diventi una vera possibilità di opposizione alle rigide e castrate espressioni dell’istinto di morte.
Psicologia, dunque,
come rapporto affettivo che comprende il mondo affettivo dell’altro,
come rapporto affettivo che permette di ritrovare la sessualità umana del mare calmo intrauterino, della nascita creduta inesistente e perduta, del seno che assente e vuoto ci ha reso pazzi e non vivi,
come rapporto affettivo che è la preziosa responsabilità di essere quel seno che dà un latte che nutre gli affetti facendo ricomparire la vita e la speranza,
come rapporto affettivo che si esprime in una psicologia degli affetti, che negli affetti attivamente agisce e negli affetti si risolve.
[1] www.treccani.it/enciclopedia/psiche/
[2] Fagioli M., “Istinto di morte e conoscenza”, Nuove Edizioni Romane, Roma, 1972.
Dott. Carlo Lazzerotti