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È il tempo in cui siamo chiamati a mettere in discussione tante certezze che pensavamo di aver raggiunto prima di questo momento storico così importante e rivoluzionario. È il tempo in cui, come psicologi, siamo chiamati a ridefinire uno spazio e un tempo in cui incontrare i nostri pazienti, ridefinire un setting a cui siamo normalmente abituati e in cui ci siamo sentiti al sicuro in questi anni. Non c’è la nostra stanza, non ci sono i nostri libri, nemmeno i quadri scelti con cura che parlano della nostra storia, non c’è neanche la scrivania, così pregna di significato psichico per noi e per i pazienti, lì per definire quella giusta distanza che non rappresenta una difesa ma un confine fondamentale fuori e dentro di noi. Non c’è la sala d’attesa, quel luogo in cui convogliano i pensieri del paziente pochi minuti prima di entrare in terapia, nell’attesa, appunto, che ci sia qualcuno pronto ad accoglierli. 

Tutto questo ha lasciato il posto ad un pc, una telecamera e un po’ di incertezza su chi debba chiamare per primo l’altro: “Sarà il mio terapeuta a contattarmi o forse è giusto che lo faccia io?”. 

Ma che significato psichico ha per noi e per i nostri pazienti aver ridefinito totalmente un setting? 

Il rapporto di terapia, nel senso più vero del termine, sembra venire modificato dalla nuova situazione in cui ci troviamo, il nostro sentire che solitamente avviene attraverso un contatto reale, viene sostituito e risulta appiattito da uno schermo e da una webcam: una dimensione in cui non vediamo l’essere umano per intero rischia di farci rapportare in modo parziale e di farci perdere tutto quello che siamo abituati a cogliere attraverso una percezione più profonda.

C’è una distanza fisica reale, un vedere piatto, un terzo occhio rappresentato da una telecamera che altera inesorabilmente la possibilità di un vedere totale. A questo, va aggiunto l’ingresso di una dimensione apparentemente più intima, in cui il paziente entra nelle stanze della casa del terapeuta, partecipando a parte della realtà dell’altro con tutti i vissuti proiettivi che questo comporta. 

C’è inoltre un vissuto comune, quello dell’emergenza, che riguarda tanto noi professionisti tanto i pazienti, entrambi cittadini ed esseri umani che sentono la responsabilità, le paure e le incertezze verso un futuro che mai come adesso ci sembra instabile.

Un cambiamento esterno radicale, che rischia di appannare la vista e farci perdere la bussola. 

Cosa succede infatti se è lo psicologo stesso ad essere artefice e vittima di questo appiattimento? Cosa succede se il vissuto di distanza del paziente corrisponde a quello del professionista, risultando così accomunati dalla stessa condizione di instabilità e incertezza? 

Il paziente ci parla di un vissuto di perdita e di angoscia dovuto al lavoro, al rapporto con la famiglia e con i cari, alle strade vuote e ai negozi chiusi e lo psicologo deve essere presente per comprendere e rispondere. Ma l’assenza dell’altro rischia di essere in primis un problema per il professionista, che senza il suo studio, il suo setting e la presenza fisica dell’altro può pensare di non avere più le sue capacità di stare in rapporto, con conseguente appiattimento delle proprie capacità di comprendere e rispondere. La realtà esterna modificata avrà così il potere di alterare la capacità di andare in profondità e vedere il latente al di là delle parole concrete, portando a rispondere con semplici consigli o rassicurazioni, volti ad alleviare le giornate che sembrano tutte uguali, ma a venir meno al vero obiettivo del nostro lavoro: la cura, la crescita e la trasformazione continua, soprattutto in situazioni di crisi. 

Il rischio è dunque quello di confermare al paziente quel vissuto di perdita e angoscia di chi vive “il contagio” di un mondo affettivo alterato e bloccato, spesso già presente prima dell’emergenza, perchè è lo psicologo, per primo, a fare il buio. 

Come possiamo dunque, nonostante questo, svolgere un lavoro valido che permetta il proseguimento della cura?

Se siamo diventati psicologi è perché nel nostro percorso c’è stata la trasformazione della nostra realtà professionale ed affettiva attraverso anni di formazione, terapia personale, corsi e supervisione, realtà concrete da cui in parte ci siamo separati senza perdere con esse tutta crescita che abbiamo realizzato. Se ci ricordiamo che la possibilità di realizzare il rapporto con il paziente risiede in una nostra realtà affettiva che ha una storia, che si è realizzata nella lotta contro l’impossibilità di crescita e separazione, contro il disumano che privilegiava rapporti distanti e conflittuali per ritrovare quella parte umana e creativa in grado di creare la giusta “connessione” con il mondo affettivo dell’altro, se ci ricordiamo che c’è stato un tempo che ha preceduto questa situazione di emergenza e che rimane viva dentro di noi potremo fronteggiare le paure e le ansie legate all’impossibilità di rispondere a chi, dall’altra parte di uno schermo, ci sta chiedendo aiuto.  

Se la nostra risposta non si appiattisce come uno schermo, se non si riduce ad un mero consiglio se non degradiamo il tempo vissuto in quel rapporto a qualcosa di distante dalle reali esigenze di chi ci sta parlando allora potremo continuare a essere psicologi. 

La possibilità di rimanere presenti per i pazienti non sarà dunque legata all’utilizzo di Skype che ci permette di “vederci” comunque, ma il riconoscimento e il ricordo di una realtà di rapporto che ci appartiene da tempo, in cui cogliamo quello che esiste al di là delle parole e della “presenza fisica”, privilegiando una realtà profonda rispetto ad una apparente, indifferente e bidimensionale che, se siamo assenti affettivamente, c’è e si verifica anche nel nostro tranquillizzante studio. 

Prima di un setting “esterno” è necessario dare valore al nostro setting “interno”, unica bussola che potrà aiutarci a mantenere un percorso di cura in questo momento di cambiamento e incertezza. 

Recuperiamo l’idea che una terapia ha significato in primo luogo perchè è presenza per l’altro e attenzione verso quel mondo non materiale che accompagna una realtà fisica concreta e tangibile e che ci permette di recuperare la capacità di ascoltare, comprendere e dunque rispondere. Se per rimanere “in contatto” siamo costretti a dipendere da una rete esterna, la nostra risposta deve orientarsi a ritrovare la nostra rete interna di ricordi costituita da tutti quei rapporti che, nel corso della nostra storia, ci hanno risposto con una presenza. Dobbiamo risintonizzarci su quelle frequenze affettive che non saltano in mancanza del WI-FI ma che ci permettono di riconoscere un tempo vissuto e coltivato insieme e che non ha subito una battuta d’arresto. In questo modo permetteremo al tempo della cura di non fermarsi, continuerà a scorrere quella vita che ha ritrovato il suo naturale fluire.  

 

Annamaria Orsi, Natasha Santicchia

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