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Per me le parole sono sempre state importanti. Non solo come necessità di possedere una certa proprietà di linguaggio e padronanza della sintassi. Io alle parole ho sempre voluto bene, perché scoprendole e conoscendole ho imparato a sentire, leggere e raccontare il mondo.

Ho saputo che nelle parole non c’era solo il suono, la ricercatezza, la corretta formulazione, c’era un’etimologia, una storia, un senso oltre il significato letterale. Un’infinita e libera possibilità di dire ed esprimere.

Nel caso della Sea Watch e di Carola Rackete sono importanti i fatti, le leggi, i limiti, le azioni, le conseguenze, i comportamenti e le analisi. Ma sono più importanti le parole.

Non parliamo di diritto, di navigazione, di giustizia o di reati. Non parliamo neanche di razzismo, né di immigrazione. Parliamo di pensiero, di libertà, di umanità.

La prima parola di cui vorrei parlare è umanità.

Umanità non è gentilezza, generosità, accondiscendenza, debolezza. Lontana dal senso buonista e banalmente altruista del cristiano “porgere l’altra guancia” che nella storia e nella società spesso ha preso a significare lasciarsi sopraffare. Lontana dal senso formale dell’atteggiamento composto e solidale, fintamente sorridente, affettato e bon ton, dietro cui spesso si nascondono imbarazzanti scheletri nell’armadio.

Umanità non è essere buoni, né far finta di esserlo.

Umanità è vedere l’umano negli uomini.

È qualcosa di insito in tutti gli esseri umani e che ci permette di riconoscerci. Eppure non sempre è così semplice. Perché nella vita degli uomini non c’è solo l’umanità. Ci sono le leggi, c’è il diritto, ci sono i confini, c’è l’economia, c’è il potere.

Alcuni dicono che le leggi possono essere messe da parte quando c’è in ballo la vita, la difesa dell’umanità. Altri dicono che le leggi vanno rispettate sempre.

Per alcuni “sempre” vuole dire “in ogni circostanza, senza eccezioni”. Per altri questo “sempre” è da intendersi necessariamente vincolante solo nel caso in cui non sia direttamente coinvolto un proprio interesse.

C’è chi la chiama incoerenza. Io la chiamo scissione. Perché le parole sono importanti.

Non è incoerenza quella che ci porta a rispettare le leggi quando parliamo di immigrati e di confini e non quando dovremmo fare chiarezza sui buchi di bilancio, sui soldi pubblici scomparsi, sulle nomine non chiare. È scissione. È un potere che l’essere umano non ha da sempre ma ha “imparato”, suo malgrado, ad avere, che lo rende in grado di dire una cosa e farne un’altra, senza che questo lo faccia sentire in contraddizione e, anzi, potendone spiegare il ragionamento con estrema logicità e raziocinio. Due cose entrambe vere nello stesso momento. Non è incoerenza. È pazzia.

È rendere vero e reale qualcosa che non lo è.

Alcuni lo chiamano camuffamento, noncuranza. Io lo chiamo annullamento. Si chiama così quella particolare condizione che porta l’uomo ad essere totalmente cieco di fronte a qualcosa che è, invece, estremamente chiara, a voltare le spalle davanti a qualcuno che ci spaventa, a complicare qualcosa di estremamente semplice, a rendere la realtà, non realtà.

Non pensare ai morti in mare non è disinteresse, è annullamento: eliminare, cancellare, rendere non esistente l’uomo. È togliere l’umano dall’uomo. È creare il disumano. Non negli altri ma in sé stessi.

L’essere umano ha il potere distruttivo di annullare l’umanità negli altri, di rendere gli altri inanimati, astratti, di renderli numeri, etnie, parole prive di contenuto e di senso: parliamo di immigrati e non di esseri umani. Togliamo l’umano dagli uomini.

Questo potere ci spaventa perché rende disumani anche noi, svuotati dell’antica capacità che appartiene a tutti di percepire l’umano negli uomini, siamo angosciati perché ci rendiamo rigidi, chiusi, duri, statici, inanimati; diventiamo sassi e vogliamo negare di esserlo. Allora ci inventiamo che non essere umani è normale, che “essere sassi” è normale perché la razionalità ci dice che la legge va rispettata, che l’umanità non è una legge e quindi che l’umanità non va necessariamente rispettata.

Estremamente impegnati nella quadratura del cerchio e nella dimostrazione della correttezza del nostro ragionamento, non ci rendiamo conto che la logica aristotelica di questo sillogismo è la stessa che ci fa dire “mia nonna è una forchetta”.

[ la forchetta ha quattro denti

mia nonna ha quattro denti

QUINDI

mia nonna è una forchetta ]

Per costringerci a non tornare a vedere quello che volutamente abbiamo deciso di nascondere, ci convinciamo che tutto quello che può essere dimostrato con la ragione, che può essere confermato dalla legge, sia corretto e naturalmente giusto.

Accettiamo la follia di credere che mia nonna sia una forchetta. Accettiamo la follia di pensare, più o meno consapevolmente, che gli immigrati non siano esseri umani, che siano sacrificabili, che la loro sofferenza e la loro morte non sia anche la nostra sofferenza e la nostra morte. Accettiamo la follia di chiamare accoglienza ed integrazione la mercificazione, lo sfruttamento e la strumentalizzazione degli esseri umani. Accettiamo la follia di credere che una legge sia inviolabile in quanto tale, in astratto, come dogma, come se non fosse essa stessa creata da uomini.

Eppure poi chiamiamo folle chi propone la libertà di un pensiero diverso che, non per ideale ma per umanità, può anche oltrepassare la regola, la logica, l’ordine; può accettare di non “essere sasso” e avere il coraggio quasi spaventoso e “provocatorio” di fare quello che pensa e dice.

Tu dirai che da folle io mi comporto, ma forse di follia m’accusa un folle

(Antigone, Sofocle)

Follia, invece, è pensare ad una società, una politica, un diritto, un’economia slegata dall’umano, che nega l’umanità ed anzi si sviluppa in contrapposizione ad essa ed utilizza la finta umanità del buonismo per trovare consensi.

Follia è la cecità dell’uomo che propone una politica in grado di governare solo limitando le irregolarità, controllando ciò che è fuori controllo, serrando i ranghi, sedando i movimenti, distraendo l’attenzione, fomentando il conflitto, normalizzando e canalizzando la delusione e la rabbia; è la cecità dell’uomo che da secoli si ostina a rendere perverso l’uomo, a non credere nelle possibilità umane e a demonizzarle.

Sanità, invece, è proporre una politica dell’uomo che consideri l’esistenza di una realtà umana vera anche se non materiale che permea ogni aspetto della vita e può essere espressa, che non è confusione, devastazione, impotenza, espressione di un mondo ignoto perverso ed aggressivo, del dominio dell’uomo sull’uomo, bensì affettività, fantasia, espressione di un mondo sano e creativo, del riconoscimento dell’umano dell’uomo.

Una politica umana che non sia barricata di pensiero, giudizio morale, furba convenienza economica, espressione di azioni implicate, preconfezionate, prevedibili e di parole strumentalizzate e svuotate di senso.

Una politica umana che sia pensiero autonomo, opinione libera, equità, espressione di azioni reali, naturali, indipendenti e di parole vere e colme di senso.

Perché le parole sono importanti.

Per questo non ho parlato della Sea Watch o di Carola Rackete ma di una parola che, sola, dà senso a tutto.

Umanità.

Irene Calzoli

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