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La tecnologia è stata da sempre considerata un mezzo per distaccarsi dalla realtà, per creare mondi paralleli distanti dal quotidiano e quindi uno strumento per non confrontarsi con i rapporti reali, quelli in cui puoi guardarti negli occhi e sfiorarti le mani. Eppure, nella realtà che viviamo oggi, sembra che stia accadendo l’esatto opposto: la tecnologia permette il mantenimento di rapporti umani. 

Da circa due anni ci stiamo confrontando con l’emergenza Covid-19 e tutti i relativi protocolli di sicurezza, compreso l’aumento dell’utilizzo di modalità di incontri online, hanno reso differenti molte realtà lavorative, anche quella dello psicologo. Il nostro lavoro si basa infatti sul rapporto con l’altro e inevitabilmente, le norme vigenti in questo periodo di pandemia sembrano scuoterne le fondamenta.

Questa nuova realtà rende forse più complesso anche intraprendere la professione e ci chiediamo quali siano i “protocolli” da seguire per svolgere al meglio il lavoro con i pazienti. 

Oggi però non vogliamo fare un decalogo di procedure (di facile reperibilità), ma desideriamo invece cercare di dare un senso alle difficoltà che noi psicologi ci troviamo ad affrontare in questo periodo così delicato, dove il confronto con l’online è all’ordine del giorno.

Il setting costruito negli anni, in questo momento storico, appare compromesso: il paziente sceglie la stanza dalla quale è possibile collegarsi senza che altri possano invadere quel momento di crescita così significativo; lo psicologo, da solo nello studio, ridefinisce gli orari e si confronta con una modalità di lavoro che sembra, a tratti, poco umana. 

La realtà esterna è cambiata, materialmente la terapia è differente: un pc, un link, concordare chi fa partire la chiamata e un’immagine piatta sullo schermo che sostituisce la tridimensionalità del rapporto. 

Cerchiamo di trovare risposte alle nuove domande che riguardano gli aspetti pratici della terapia. Ci chiediamo quale sia la piattaforma migliore e più protetta, cosa fare se la connessione non funziona, come incontrare i nuovi o i primi pazienti per farli sentire a loro agio. Durante la seduta possiamo sentirci confusi, fare fatica a trovare un senso alle parole dette dall’altro e a volte ci sentiamo più stanchi del solito, a tratti forse anche annoiati, finendo per pensare che la causa sia l’utilizzo del computer. Percepiamo che una vera interazione non sia realizzabile, perché abbiamo l’impressione che il nostro pensiero rimbalzi sullo schermo del computer e non raggiunga il paziente, attribuendo la causa alla tecnologia, ai rumori di sottofondo, alla connessione che va a tratti.

Ma l’unica variabile realmente differente rispetto a un rapporto di persona è l’assenza materiale del paziente. La sedia vuota. Nonostante si sia collegato all’orario concordato e stia interagendo con noi, la sua presenza fisica nella stanza di terapia viene a mancare. Viviamo l’assenza. Il suo mondo interno, le sue problematiche, i suoi desideri da realizzare, tutto ciò che ha portato quella persona a scegliere di intraprendere un percorso con lo psicologo è ancora presente eppure, sembra che la lontananza fisica sia in grado di far sparire tutto questo, di renderlo più difficile da percepire.

L’assenza fisica del paziente ha un impatto, una risonanza dentro di noi. Inevitabilmente, potrebbe rimandare a una nostra difficoltà nello stare in rapporto con l’altro che ci porta a mettere una distanza, uno schermo, e ad allontanarci. Siamo noi, a quel punto, a diventare assenti nel rapporto con il paziente e per questo tutto sembra più faticoso e difficile. L’assenza psichica dello psicologo si esplica come difficoltà nella restituzione, legata alla confusione rispetto a ciò che il paziente dice e al senso delle sue parole, che si traduce in una mancata comprensione della sua storia. Ci troviamo ad essere psichicamente assenti, facciamo sparire le nostre capacità di vedere profondo, di intuizione, partecipazione e di interesse, per cui comunicare con il paziente diventa più una faticosa rincorsa alle tante teorie che abbiamo imparato, ai tanti criteri diagnostici, anziché piena partecipazione alla vita e ai blocchi evolutivi che il paziente racconta, introvabile sui manuali e unica bussola per dare risposte che possano essergli di reale aiuto. Allora comprendiamo come la terapia online sia una realtà esterna che può confermare una nostra difficoltà interna di essere costantemente partecipativi, capaci e presenti nel rapporto con l’altro.

Il riconoscimento dell’esistenza di questa realtà non materiale ci permette di comprendere tanto le difficoltà che porta il paziente quanto quelle che noi professionisti viviamo nel rapporto. 

Fare luce e comprendere quello che stiamo vivendo significa uscire dal torpore in cui ci troviamo, risvegliare le nostre capacità di ascoltare e vedere in profondità, le nostre realtà affettive valide che possono combattere la confusione e la distanza per ritornare a essere presenti nel rapporto. La terapia online richiede allo psicologo di mantenere, con un impegno maggiore, la sua capacità di intuire ciò che il paziente vuole comunicare, di comprendere cosa c’è dietro la realtà materiale che racconta, di restituire le parti valide che non riesce più a percepire, di mantenere vivo e recettivo il suo mondo affettivo. E al tempo stesso, ci chiama ad una lotta continua per non confermare l’assenza materiale proposta dalla realtà esterna, per non sfocare la vista dal pc per soffermarci sulla sedia vuota, ma restare in contatto con chi c’è e desidera realizzare un rapporto con noi anche se non è venuto fisicamente a studio. È questa la strada per la vera realizzazione della professione. 

Tutte queste realtà sono ancor più presenti e complesse nel lavoro con i gruppi, laddove lo psicologo si trova nella condizione di esplicitare chiaramente ciò che è necessario fare, da parte di ognuno dei membri, per proteggere il setting, come tenere la videocamera accesa e trovare un luogo nel quale non è possibile essere ascoltati da terze persone. Apparentemente queste realtà esterne alla terapia possono sembrare poco attinenti al rapporto umano di scambio profondo che si realizza nella stessa, ma non è così. Lo psicologo sa che l’attenzione verso queste situazioni materiali esterne, è in realtà cura delle dimensioni interne alla terapia. Non si tratta di rigidità e freddezza, regole e norme, ma di protezione finalizzata al mantenimento di un rapporto che sia di reale interesse e partecipazione per la crescita di ciascuno. Avere chiaro questo ci permette di comunicare il vero senso delle disposizioni date ai pazienti, che significa avere realmente a cuore il desiderio di trasformazione che li porta ad essere lì, distanti ma insieme. 

Comprendiamo allora che, unitamente agli strumenti tecnologici che dobbiamo saper usare per mandare avanti la nostra professione e la crescita di altri esseri umani, esiste un altro strumento, altrettanto fondamentale e complesso: noi stessi. Siamo noi, con il nostro mondo affettivo valido, lo strumento che permette al paziente di ritrovare la propria realtà affettiva, le proprie capacità di stare in rapporto con altri esseri umani e mandare via le parti che lo portano a sentirsi solo, distante, abbandonato. Il mondo affettivo di ciascuno di noi è il principale strumento di terapia e nella professione di oggi, che sembra essersi persa tra i tanti cambiamenti che stiamo vivendo, sappiamo che c’è qualcosa che resta inalterato: la possibilità di realizzare rapporti umani validi attraverso la partecipazione e l’interesse, veicolo delle profonde realtà affettive di chi li realizza, in presenza o online.

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